Sandra
Quando finii di sistemare le cianfrusaglie che Karin aveva comprato e mentre la zuppa che aveva lasciato Frida si riscaldava sul fuoco, salii a dare un’occhiata al bagno di Fred e Karin. Entrare nella loro camera incuteva sempre timore. Colpa di quella spalliera e del copriletto di raso, delle tende, dei loro ritratti alla parete e della foto di giornale incorniciata che gli avevo regalato e che dovevano aver preferito non mettere in bella mostra sulla mensola del camino. Colpa dell’imponente armadio con dentro gli abiti lunghi e scollati di Karin, che forse erano stati toccati dallo stesso Führer, e gli enormi pantaloni e giacche di Fred. Era un ambiente speciale, pieno dei pensieri di quei mostri, pieno dei loro incubi, anche se non mi pareva che avessero problemi di insonnia: si svegliavano solo per avere rapporti o se il giorno dopo avevano da fare qualcosa di diverso dal solito. Non avrei detto che fossero persone con qualche genere di rimorso. A volte mi sembrava strano vederli lì, poterli osservare come persone in carne e ossa, perché le atrocità di cui mi parlava Julián non potevano essere state commesse da esseri umani, al punto che ormai, quando sentivo dire di qualcuno che era molto umano, non sapevo se fosse un bene o un male.
Anche il bagno era imponente. Era fatto con marmo portato dalle cave di Macael, come le scale, cosa che mi faceva regolarmente pensare alle cave di Mauthausen, dove Julián era stato prigioniero come tutta quella povera gente che avevo visto tante volte nei documentari. Era un marmo molto delicato, fresco, rosa, sul quale spiccavano le lussuosissime boccette di profumo di Karin. Ma in quel momento non mi concentrai su niente di tutto ciò. Avevo sentito che si era aperto il cancello con il tipico rumore che facevano le chiavi di Fred. Gli piaceva camminare per un tratto facendole tintinnare nella mano. Il tintinnio cambiava in base al suo umore.
Sollevai il coperchio metallico del cestino sanitario o come diavolo si chiama, e con mia sorpresa vidi che Frida non lo aveva svuotato. Sembrava che i fazzoletti accartocciati, due rotoli finiti di carta igienica, una bottiglia di shampoo e varie altre cose fossero più o meno come le avevo lasciate. A quanto pareva ciò che stavo vedendo nel cestino combaciava con ciò che avevo visto quella mattina, ma non potevo esserne certa, non ero sicura che Frida non si stesse prendendo gioco di me: conoscendola, quella disattenzione era davvero strana. Frida era la campionessa della pulizia, non era una scansafatiche, non lasciava niente fuori posto, era coscienziosa, un soldato della pulizia. Sentii un fremito che mi tolse del tutto la voglia di mangiare la zuppa al pensiero che Frida se ne fosse accorta e sarebbe andata a raccontarlo a Fred e Karin il giorno dopo, sempre che non avesse già beccato Fred e non glielo avesse già detto. Che scusa potevo trovare in quel caso? Era la sua parola contro la mia. Avrebbero creduto a lei.
Subito dopo, però, accadde una cosa che mi tolse d’impaccio e che mi fece pensare che prima di prendere decisioni drastiche come confessare o buttarsi da una finestra bisognava aspettare, bisognava aspettare pazientemente che accadesse qualcosa, perché accade sempre qualcosa, basta solo avere pazienza.
Quel che accadde fu che sentii Fred parlare in norvegese con Karin in un modo che mi fece sussultare. Fred non alzava mai la voce con Karin, era il suo cagnolino: per questo mi sorpresi tanto. Uscii in punta di piedi dalla camera rosa e dorata in tempo per vedere che stavano salendo. Fred stava spingendo letteralmente Karin, e lei si dimenava da una parte e dall’altra, afferrandosi al corrimano come poteva. All’inizio pensai che fosse colpa mia: evidentemente Karin mi proteggeva, e se non mi avevano ancora pizzicato a spiarli era perché non avevano voluto farlo, perché io avevo un dono speciale che mi rendeva invisibile ai loro occhi, o più semplicemente perché per il calcolo delle probabilità era quasi impossibile che una ragazza conosciuta sulla spiaggia mentre vomitava fosse una spia. Fred era così arrabbiato che quasi non si accorse di me in corridoio, mentre uscivo dalla sua camera per entrare nella mia.
Karin venne da me quasi in lacrime e quando mi fu accanto mi abbracciò. Fred ci guardò intenerito. Capii che Karin stava fingendo di essere sul punto di piangere. Mi staccai un po’ da lei e le accarezzai i capelli guardando Fred e chiedendogli con lo sguardo cosa stava succedendo.
Me lo dissero. Karin con il suo finto mezzo pianto mi disse che Fred non capiva cosa significassero per una donna i suoi gioielli. Pretendeva che desse i suoi ad Alice.
Annuii proprio come voleva Karin, nonostante entrambe sapessimo che io ero una donna senza gioielli e che i gioielli non erano mai stati un mio pensiero.
«Buon Dio, Karin», esclamò Fred, «ci sono cose più importanti dei gioielli.»
Karin restò in silenzio e Fred continuò.
«La vita è più importante, o no? La vita in cambio dei gioielli.»
«Quella puttana...» fece Karin. «Mi sta lasciando senza niente.»
Capii che le iniezioni che Otto e Alice le davano venivano ripagate in gioielli.
«Voglio che tu vada a casa sua», disse Fred aprendo la cassaforte murata nell’armadio, «che le dica che ti eri dimenticata di portarle questo piccolo regalo e che ti dispiace. In vita mia non ho mai provato tanta vergogna come quando Otto mi ha richiamato all’ordine.»
«Non puoi andarci tu?» chiese Karin.
«No», rispose tirando fuori dalla cassaforte la cassetta che già conoscevo. In quel momento uscii. Non mi sembrava prudente restare a guardare i gioielli di Karin, e soprattutto non volevo vederli.
«Fatti accompagnare da Sandra. Così fate quattro passi.»
Dalla cucina proveniva un odore di bruciato. Scesi correndo e iniziai a tossire come i giorni precedenti. Un sudore freddo mi scendeva lungo il collo. Tolsi la zuppa dal fuoco e mi buttai sul divano, nell’incavo lasciato da Karin poco prima.
Sicuramente stavano scegliendo i gioielli da portare ad Alice, così io ebbi tempo di riprendermi e di versare la zuppa in alcune ciotole di legno che Karin aveva comprato al centro commerciale.
La mangiammo davanti al sacchetto di plastica che avevo portato dalla farmacia e in cui Fred aveva infilato i gioielli per Alice, facendoli cadere di botto sul tavolo. Parlarono un po’ in norvegese rinfacciandosi qualcosa, forse che Fred non fosse riuscito ad assumere il controllo di quel prodotto così caro, finché lui non andò a chiamare Otto per dirgli che Karin sarebbe andata a trovare Alice perché ci teneva molto a farle un regalo.
Si alzò, telefonò e poi ci riferì che ci aspettavano per le cinque. Proprio l’ora concordata con Julián per l’appuntamento al Faro.
«Non pensate che sarebbe meglio se andaste voi? La verità è che non mi sento a mio agio a immischiarmi in una faccenda così privata.»
«Proprio per questo voglio che ci vada tu», ribadì Fred, «perché capiscano una maledettissima volta per tutte», e diede un pugno sul tavolo che mi lasciò di sasso, «che sei una di famiglia e che meriti di entrare nella Confraternita, che te lo meriti più di quelli che si sono guadagnati rispetto e considerazione facendo i teppisti per strada.»
Karin guardò suo marito con ammirazione e poi mi sorrise.
«Ha ragione», disse.
Mi faceva paura che volessero condividere tante cose con me. Mi faceva paura che Fred potesse ribellarsi ai suoi per me: era una cosa che non avevo previsto. Di sicuro avevano passato tanto tempo a custodire segreti e tramare fra loro che avevano un disperato bisogno di chiamare in causa un terzo giocatore per non annoiarsi. Le festicciole di un tempo andavano bene, ma ormai sapevano di poco. E soprattutto mi inquietava moltissimo l’idea di non poter incontrare Julián.
«Ho un appuntamento a quell’ora per iscrivermi a un corso di preparazione al parto. Da Alice potremmo andare un po’ prima, o meglio ancora, domani.»
Fred e Karin fecero segno di no con il capo.
«Prima», disse Fred, «Alice si riposa: è impossibile vederla fra le due e le cinque. Anche se ritardi di un giorno la preparazione al parto non penso succeda niente.»
«Il problema è che potrebbero non esserci più posti», risposi.
«Non preoccuparti», intervenne Karin con il suo sorriso diabolico. «Anche nella mia palestra fanno quel tipo di corsi, devo solo parlare con il direttore. Così, mentre io faccio i miei esercizi, tu fai i tuoi. Gli parlerò domani stesso.»
Era impossibile. Per loro era impossibile non fare sempre quello che volevano. Era una vera e propria violenza doversi adattare alle necessità altrui.
Alle cinque in punto parcheggiai il fuoristrada davanti alla porta di Alice. Suonammo il campanello e ci misero cinque minuti ad aprirci: far aspettare Karin era un modo per umiliarla. Senza volere (non mi importava niente né dell’una né dell’altra) mi misi dalla sua parte. Vivevo in casa di Karin, avevo più confidenza con lei, la conoscevo meglio. Anche se quando fosse arrivato il momento avrebbero pensato entrambe a togliermi di mezzo, era impossibile non prendere partito.
Non dissi nulla per non mortificarla di più, non la guardavo neppure in faccia.
«Questa me la pagherà», disse mentre la porta si apriva lentamente.
E mentre procedevamo fra le colonne doriche mi chiesi chi fosse peggio fra le due, chi avrebbe avuto la meglio sull’altra. Dalla sua Alice aveva più giovinezza e più forza, ed era quella che aveva il controllo del liquido, per cui a Karin non restava molto da fare, se non sopportare e mandare giù l’amaro boccone.
Ci ricevette Frida, che nel pomeriggio lavorava lì, e dovemmo aspettare ancora un po’ in salone. Io ero ansiosa di leggere sul volto di Frida se aveva scoperto il furto delle siringhe usate, ma mi guardò appena. Ora che facevo più caso a lei mi rendevo conto che mi considerava un’intrusa nella Confraternita e che la mia presenza in casa dei Christensen doveva averla irritata molto.
«Che cattivo gusto!» disse Karin a voce bassa facendo correre lo sguardo sugli orologi di bronzo, i candelabri d’argento, gli specchi con le cornici d’oro, i tappeti antichissimi e i quadri da museo.
«Sono autentici?» chiesi.
«Sì, ma è come se non lo fossero», rispose Karin con disprezzo.
Le domandai se aveva preso il sacchetto con i gioielli e si tastò la tasca in segno di assenso. Neanche Karin aveva un gusto raffinatissimo, ma era un po’ più personale, e le piacevano le cose belle anche se non erano care o di lusso. Quello di Alice era puro lusso, un’overdose di lusso che impediva a qualsiasi cosa di spiccare. Mi sentivo come in un negozio di antiquariato, dove si osservano i vari oggetti esposti immaginandoli in un posto diverso. Io non avevo mai comprato un pezzo di antiquariato - non avevo i soldi per farlo né una casa dove metterli - ma di tutto quello che vedevo mi piaceva un vaso cinese che doveva avere duemila anni.
All’improvviso, in cima alla scala comparve Alice. Iniziò a scendere come un’attrice, lentamente. Indossava pantaloni di velluto larghi che le stavano a pennello e le conferivano molta classe. Da quello che vedevo le piaceva molto quel tessuto, di cui erano fatte pure le tende, turchese in quel caso. Anche la giacca era in velluto, e le mancava solo un lungo bocchino per sembrare una vamp passata di moda. Quando mi vide cambiò posa, non so se perché era contenta o arrabbiata. Si ravviò i capelli con le mani e questo mi fece supporre che fosse contenta. Era felice di vedermi e loro lo sapevano. Fred e Karin sapevano che vedermi l’avrebbe addolcita e che sarebbe andato tutto meglio. Mi ero appena resa conto che quell’iniziativa era più a favore loro che mio. Forse quando massacravano gli ebrei e la gente come Julián pensavano di star facendo loro un favore.
Nonostante questo continuavo a stare dalla parte di Karin, e non di Alice. Ci offrì il tè. Erano fissati con il tè. Io dissi che non lo avrei preso perché mi faceva venire l’insonnia.
«Sei così giovane!» esclamò Alice. «Non ci posso credere. Non sai neanche cosa sia l’insonnia. Ti preparerò una camomilla. »
Mi pentii di non aver accettato il tè, perché la camomilla ci avrebbe fatto perdere ancora più tempo. Erano già le cinque e mezzo. Per di più non volle che fosse Frida a prepararla, cosa che sicuramente la avrebbe ancora più indisposta nei miei confronti. Ormai ero perduta. Andò lei stessa in cucina, fece bollire l’acqua, mise la bustina nella tazza, sistemò tutto su un piccolo vassoio e me lo appoggiò davanti con fare adorante. Mi faceva paura. Poi si sedette accavallando elegantemente le sue lunghe gambe e prese una bellissima tazza di porcellana. Chissà chi ci aveva bevuto prima di lei.
Fissò Karin da dietro la tazza.
«Ah!» fece Karin tirando fuori il sacchetto di plastica con la croce verde della farmacia. «Spero ti piacciano. Sono i gioielli più belli che ho e quelli che possono rispondere di più ai tuoi gusti.»
«Vediamo un po’», disse Alice rovesciando il contenuto del sacchetto sul tavolino di vetro, fra le tazze, la zuccheriera e i cucchiaini. Karin mi rivolse uno sguardo come per dire: è una cafona, non merita neppure di vederli questi gioielli.
«Una collana di rubini», osservò Alice tenendola in mano, «orecchini in pendant, un bracciale di perle, un anello con zaffiro, se non mi sbaglio, un anello con ametista... è oro bianco?»
Prese il bracciale di perle: quattro giri.
«È un vero peccato che non ci sia la collana coordinata a questo bracciale.»
«La collana?» fece Karin. «Ah, sì, la collana. Deve essermi caduta in borsa.»
Sotto lo sguardo spietato di Alice, Karin fece finta di cercare in borsa e tirò fuori una collana di due fili di perle che doveva valere una fortuna.
«Grazie», disse Alice prendendola. «So che a te le perle non piacciono molto, ma io le adoro.»
Si alzò e si mise di fronte allo specchio con la cornice d’oro.
«È un po’ pesante», commentò, «ma è bella.»
Karin finì di bere il tè, io feci uno sforzo per finire la mia camomilla bollente e poi ci alzammo. Guardai l’orologio. Erano le sei meno cinque: poteva darsi che Julián mi stesse ancora aspettando.
«No no», disse Alice, «non andatevene prima di aver assaggiato il pandispagna che ha fatto Frida.»
Le dicemmo che non avevamo fame, che avevamo mangiato molto tardi e che a nessuna delle due entrava un briciolo di pandispagna nello stomaco.
«Solo un pezzetto, nient’altro, solo un assaggio. È spettacolare» disse senza levarsi la collana di perle che si era messa.
«Frida!» gridò. «Porta un po’ di quel meraviglioso pandispagna che hai fatto.»
Ci dovemmo risedere. Anche Alice era abituata al fatto che gli altri facessero tutto ciò che le saltava in testa. Servì dell’altro tè a Karin, e per evitare che andasse a preparare un’altra camomilla le dissi che adesso avrei preso un po’ di tè. Frida comparve con lo stesso pandispagna che di solito faceva a casa di Karin e ne offrì un’enorme fetta a entrambe, così grande che usciva quasi dal piatto.
«Non pretenderai che lo mangiamo tutto», disse Karin con il suo sorriso diabolico.
Alice allora le disse qualcosa in tedesco e Karin le rispose nella stessa lingua. Andarono avanti così per una decina di minuti, lanciandosi quelle che sembravano accuse finché Karin non si alzò.
«Adesso dobbiamo proprio andare», concluse. «Questa bambina ha delle cose da fare e io anche. Fai un ottimo pandispagna, Frida.»
Anch’io balbettai che era molto buono anche se lo mangiavo ogni due per tre a colazione. Dalla faccia di Alice sembrava che nella discussione in tedesco avesse vinto Karin. E da quella di Frida sembrava che fosse molto contenta che io non potessi ancora superare la barriera della lingua e dei grandi segreti.
«Aspetta un momento», disse Alice, quando stavamo per uscire.
Karin sbuffò e guardò l’orologio come se avesse qualcosa da fare: forse durante la visita le era venuto in mente di andare al centro commerciale, non mi avrebbe sorpreso. Alice aprì la porta del primo piano e dopo cinque minuti uscì con il solito pacchetto.
«Questo è un regalo personale, è una mia iniziativa.»
Karin lo prese e le diede una specie di abbraccio, una stretta di spalle. Si erano riconciliate. In fondo erano membri di una specie in estinzione: erano condannate ad andare d’accordo.
E ci fu un momento, un istante, mentre si svolgeva questa scena, in cui istintivamente mi girai verso destra e sorpresi Frida che mi guardava. Distolse subito lo sguardo e non riuscii a trarre alcuna conclusione, ma era evidente che mi studiava o mi sorvegliava, così come era evidente che non avesse detto niente ad Alice del fatto che avevo preso le siringhe usate: o non lo sapeva o aveva deciso di tenersi quell’asso nella manica per un’altra occasione. Poteva darsi che quando io non mi ero neppure accorta di lei mi stesse già osservando.
Congedandosi Alice mi strinse a lei come la sera della festa. Sentii le ossa delle sue anche contro di me.
Quando alla fine salimmo sul fuoristrada non osai guardare l’orologio: non volevo sospettasse che lì avevo anche una vita mia.
«Sembra che tu l’abbia messa al suo posto», dissi con una certa ammirazione, lo confesso.
«Ho dovuto ricordarle un paio di cose, la gente è molto smemorata. Già che siamo in macchina potremmo fare un giro, che te ne pare?»
«Bene», risposi. Ero stanca di tutti quei tira e molla.
«Quella donna mi fa impazzire, vuole tutto quello che hanno gli altri. Se trovasse per terra il diamante più grande e prezioso del mondo non le interesserebbe, lo vorrebbe solo se l’avesse addosso qualcuno. E non si sarebbe neanche accorta di te se non stessi da noi.»
Alice la predatrice. Tutti erano predatori, ognuno a modo suo. Tranne Alberto. Alberto mi aveva dato più di quello che mi aveva tolto. Anche se a ben vedere mi aveva tolto la pace. L’amore è un’arma a doppio taglio, serve per essere felici o infelici. Mi ricordai dell’Angelo Nero: sembrava il più intelligente di tutti e forse era lui il capo della Confraternita. Era venuto a casa nostra solo in occasione della festa di Karin e dava l’impressione di essere stufo di tutti loro. Mi venne in mente di chiedere a Karin di lui.
«E Sebastian? Quel signore tanto elegante che c’era alla tua festa...»
«Sebastian... sì, ha classe. Non ha niente a che vedere con Alice. Lei è una parvenue, un’arricchita, come dite voi. Lo avrai notato dai suoi modi. Invece Sebastian è un’altra cosa, ancora oggi peso bene le parole quando sono con lui.»
Andai verso il Faro. Karin guardava fuori dal finestrino. Stava facendo buio.
«Dove andiamo?» chiese.
«Non lo so. In paese a quest’ora ci saranno milioni di persone e a casa di Alice mi è venuto il mal di testa.»
«Sì, Alice è stata molto pesante.»
Per arrivare alle palme selvagge del Faro bisognava prendere una strada sterrata, uscire da quella principale. Cercai di individuare dalla strada la macchina di Julián. Ormai doveva essersi stancato di aspettarmi, ma visto che eravamo già lì era una sciocchezza non avvicinarmi: Karin non avrebbe potuto collegare quel posto a niente altro.
Parcheggiai vicino alla gelateria, le cui luci proiettavano fantasmi sugli alberi intorno. Mi piaceva quella sensazione di pace e di solitudine, ma sapevo che Karin ne era atterrita: lei aveva bisogno di confusione.
«Cosa ci facciamo qui?» chiese lei, che avrebbe preferito stare in un centro commerciale pieno di gente e di belle cose.
«Devo fare pipì. Sicuramente ci sarà un bagno.»
«Avresti potuto farla in campagna, non ti avrebbe visto nessuno», disse sghignazzando.
«Sì, è vero, mi capita di farlo. Se non vuoi scendere torno subito.»
«Ti aspetto. Non metterci molto», concluse infastidita perché non stavo facendo esattamente ciò che voleva.
Da parte mia era stato troppo azzardato portarla lì e me ne stavo pentendo; facevo affidamento sul fatto che fosse distratta dall’idea di andare in paese.
Entrai senza sperare di incontrare Julián e senza sapere bene come trarre profitto dalla situazione. C’erano due o tre coppie sedute e due uomini al bancone che scherzavano. La solita cameriera, vedendomi andare in bagno, mi guardò e io la guardai a mia volta. Mi avvicinai e le chiesi se avevano lasciato un messaggio per me.
«Per te?» disse valutando se era disposta a darmi quell’informazione.
Il cuore mi batteva forte. Se a Karin fosse venuto in mente di entrare per me sarebbe finita. La cameriera guardò sotto il bancone. Sentii lo sportello di una macchina e stavo per correre fuori, quando tirò fuori un foglio di carta, mi guardò dritta negli occhi facendo uno sforzo per trattenersi dal darmi la sua opinione circa la mia relazione con il vecchio Julián e me lo diede. Lo misi in tasca e le stavo per chiedere di tenere la bocca chiusa, ma non lo feci perché sarebbe stato darle troppa importanza e alla fine si sarebbe ricordata meglio di tutta quella storia. Uscii senza passare dal bagno e una volta fuori vidi un’altra macchina vicino alla nostra. Verificai se attraverso la vetrina del locale Karin avesse potuto vedermi mentre parlavo con la cameriera o mi mettevo il biglietto in tasca. Era possibile.
«Allora?» fece Karin.
Non risposi, mi limitai a sospirare come se avessi una pressione sul diaframma e misi in moto.
«I gioielli erano tutti bellissimi, ma la collana di perle...» dissi poi, mentre dirigevo il muso del fuoristrada verso il paese.
«Sarebbero state meglio a te, non certo a quella vecchia. Non so chi si crede di essere. Le perle sono per le giovani. Pensi di togliertelo l’orecchino dal naso?»
«Visto che mi sono fatta il buco devo sfruttarlo.»
Si sistemò meglio sul sedile: le piaceva stare con me. Superai l’incrocio per Tosalet e mi immersi nella confusione del paese. Notavo l’entusiasmo crescente di Karin, ma non mi diceva niente nel caso non me ne fossi resa conto e fossi tornata sulla strada di casa. Mi fermai nel parcheggio del centro commerciale.
«Non avevi detto che ti faceva male la testa?» disse un po’ eccitata.
«Sì, però mi è già passato e dobbiamo dimenticarci di Alice, giusto?»
Era come una bambina in un negozio di caramelle. Non si aspettava che mi venisse in mente di portarla al centro commerciale senza che me lo chiedesse lei. Confidavo che in quel modo qualsiasi dubbio, qualsiasi sospetto, qualsiasi ombra circa il Faro le fossero passati per la testa, sarebbero svaniti all’istante. Un volta entrate, quando avevamo già preso il carrello e i suoi occhi avevano iniziato a vagare fra tutte quelle belle cose, le dissi che non ero sicura di aver spento i fari e che sarei tornata subito, tanto sapevo dove trovarla.
Non appena la persi di vista tirai fuori il foglietto dalla tasca. Era uno schizzo senza nomi. Aveva disegnato dei cerchi, tre per l’esattezza. Ognuno era contrassegnato da una lettera: A, B, C. Il cerchio C racchiudeva una croce. C’erano anche un rettangolo e delle palme. Chiusi gli occhi per calmarmi, e quando li riaprii e guardai nuovamente il disegno con attenzione, iniziò a sembrarmi familiare. Palme basse, selvatiche, una panchina e delle pietre. Era il punto del Faro dove io e Julián ci sedevamo prima che iniziasse a far fresco, il che poteva significare che sotto la pietra C mi aveva lasciato qualche messaggio. Poteva essere un modo per dirmi di non andare in albergo ma al Faro. In quel momento però sarebbe stato difficile. Avrei fatto troppo tardi, a Karin sarebbe parso strano e si sarebbe spazientita. Certo, avrei sempre potuto inventarmi qualcosa sulla via del ritorno: quando Karin era felice era disposta a credere a qualsiasi cosa. Karin sapeva che non le rimaneva molto da vivere: quando si fosse chiuso il rubinetto del liquido magico lei si sarebbe rattrappita, sarebbe finita su una sedia a rotelle e non sarebbe più potuta uscire di casa. Anche i gioielli sarebbero finiti prima o poi. Doveva cogliere l’attimo.
Uscii dal parcheggio, suonando a tutte le macchine che incrociavo e che mi ostacolavano. In motorino sarei arrivata in un attimo, ma con quel carro armato diventava tutto più complicato.
Alla fine arrivai al Faro. Era una pazzia aver lasciato Karin da sola. Ci misi un quarto d’ora a percorrere la strada con le maledette curve. Lasciai la zona illuminata dirigendomi verso la panchina e le palme, e quando trovai la pietra C cercai di spostarla. Pesava parecchio ma alla fine riuscii a smuoverla, presi un foglio avvolto nella plastica che stava lì sotto, rimisi la pietra al suo posto e andai via di corsa. Era come trovarsi in uno di quei programmi televisivi in cui bisogna superare delle prove a gran velocità. Mi avrebbe fatto male tutta quella fretta? Entro un paio di mesi non avrei più potuto farlo, ma fortunatamente in quel momento ce la facevo ancora. Salii in macchina, misi in moto. Ai semafori supplicavo che scattassero velocemente, supplicavo con tutta l’anima e poi supplicai che ci fosse un posto libero nel parcheggio. A quell’ora il centro commerciale si riempiva all’inverosimile, e se non avessi trovato un posto non sarei riuscita a inventare una scusa ragionevole per spiegarlo. Ma le mie preghiere furono esaudite, visto che trovai un posto nel piano più basso. A quel punto, se Karin mi avesse chiesto qualcosa, avrei potuto farla dubitare di sé stessa. Sudavo da ogni poro e il cuore mi batteva a mille. Quando arrivai al supermercato cercai di controllare la respirazione, non volevo che mi vedesse agitata. Mi asciugai il sudore dalla faccia. Ci avevo messo quasi tre quarti d’ora. Un’altra supplica e giurai che sarebbe stata l’ultima del pomeriggio. Implorai di essere capace di individuarla velocemente fra quella folla.
Mi misi in un punto centrale, mi concentrai e percorsi con lo sguardo tutte le sezioni. Nella supplica era inclusa la richiesta che non fosse dietro nessuna colonna. E poi la vidi. La vidi nel reparto libri che comprava vari romanzi con i titoli dalle lettere dorate.
La raggiunsi e le presi il sacchetto con i libri.
«Dove eri finita? Ero preoccupata. Non ti sarai sentita male.»
Sapevo che la sua osservazione era una trappola, così le dissi di no, che semplicemente non la trovavo, che con tutta quella gente era praticamente impossibile, che stavo per gettare la spugna e farla chiamare con l’altoparlante quando l’avevo vista.
«Sono belli questi romanzi?»
«Non vedo l’ora di iniziare. Oggi non guarderò la televisione. »
Buono a sapersi, così sarei potuta salire di corsa in camera mia.
Non volevo restare sola con Fred. Ormai le cose che dovevo nascondere erano tante che me ne sarebbe potuta sfuggire qualcuna.
Per sviare l’attenzione di Karin dal fatto che dovevamo prendere l’ascensore per scendere di un piano e dal poco tempo che era segnato sul ticket del parcheggio, le dissi che mi sarebbe piaciuto imparare il tedesco, che pensavo che impararlo mi avrebbe aperto molte porte e che magari avrebbe potuto insegnarmelo lei.
«Per esempio», le dissi, «come si dice: “Vivo a casa di Fred e Karin. Fred e Karin sono miei amici”?»
Karin pronunciò una lunga frase in tedesco e poi assunse un’aria pensosa.
«Non credo di avere la pazienza necessaria a insegnarti, è meglio che tu vada a scuola. Ne conosco una molto buona.»
Ridendo e scherzando, nel frattempo Karin aveva pagato il parcheggio, io avevo preso il ticket e lo avevo buttato nella spazzatura, eravamo scese al primo piano e stavamo già aprendo il bagagliaio per sistemare i suoi acquisti. Questa volta, oltre alle solite cianfrusaglie, aveva comprato cose utili come frutta e latte. Fu in quel momento che si guardò attorno e disse che non avevamo parcheggiato lì. Le dissi di sì, solo che al ritorno invece di prendere le scale mobili avevamo preso l’ascensore.
Diede un’altra occhiata in giro e non disse niente. Avrei potuto raccontarle che quando ero tornata a controllare se avevo lasciato i fari accesi mi ero resa conto che avevamo parcheggiato in un posto riservato agli invalidi e che avevo dovuto spostare il fuoristrada, ma optai per la strada più breve. Se ci credeva bene, se no non si sarebbe bevuta neanche il resto.
«Torniamo a casa?» le chiesi per distoglierla dai suoi pensieri.
«Ci andiamo più per te che per me, io non mi stanco.»
Le chiesi, per distrarla di nuovo, se non le dispiaceva passare prima da casa di mia sorella per controllare che fosse tutto a posto e per prendere una cartellina che avevo dimenticato lì, una cartellina che in realtà non esisteva.